Sotto le mentite spoglie della commedia brillante (nella prima parte), e del film sentimentale e drammatico (nella seconda), FAMILY BUSINESS gioca comunque e soprattutto una corda, quella dell'amoralità. Ladro il nonno (Sean Connery), ex ladro il padre (Dustin Hoffman), Mattew Broderick, che è il figlio, è stato completamente riciclato secondo i crismi della legalità: college e laurea in vista, quella carriera perbene sognata dal padre, Pasqua e Natale con i nonni ad intonare i cantici ebrei della tradizione. Sembra facile: ma poiché buon sangue non mente, le idee del figlio non coincidono con quelle del padre. E, più si avvicina la laurea, più l'identità del nostro riafferma le proprie esigenze: quelle, come dice lui, di rispondere alla propria memoria cromosomica. Incoraggiato dal nonno tuttora sulla breccia, osteggiato dal padre riconvertitosi nel mercato della carne, è lui stesso a proporre al resto della famiglia il consueto colpo sicuro, dai risultati (ma la morale non era da ribaltare?) tradizionalmente incerti.
Dai tempi del celebre LA PAROLA AI GIURATI, Sidney Lumet ha firmato opere tanto efficaci e civilmente impegnate, quanto prive di quel lampo di follia che contraddistingue l'intuizione del genio. Qui, in questa apologia di una logica meno sistematicamente perbenistica, non occorreva un'arte della sovversione di marchio bunueliano: bastava - si fa per dire - il piacere diabolico di mescolare le carte di un John Huston anche settantenne.
Poiché tutto sta nello stile, quello efficacemente ordinato di Lumet dovrebbe sovvertire i valori - estetici - delle situazioni descritte: ovvio che non ci riesca. Restando in quell'ordine qualitativo, per certi modi sempre più sbadigliabile, che fa dire alla critica che gli attori sono impeccabili.